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Occorre ricordare la storia naturale della nostra specie, legata a questo pianeta, dove le leggi della natura governano il nostro futuro. Nei parchi sono leggi visibili, raccolte nelle culture stratificate del territorio. I parchi sono allora anche un fatto di cultura, che ritroviamo nel senso di chi abita un luogo, tradotto in paesaggio, e dove insieme alle dinamiche dell'abitare si muovono vita ed economia. Abbiamo bisogno di rinnovare allora il nostro modo di parlare di aree protette e di natura, con nuove visioni e un nuovo modo per comunicarle.

I limiti dello sviluppo, Aurelio Peccei e i Parchi. Spunti di riflessione a partire dal saggio di Giorgio Nebbia e Luigi Piccioni

Era il 12 marzo del 1972 quando viene lanciato allo Smithsonian Institute di Washington il libro “The Limits to Growth. A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind”, il celebre libro “I Limiti dello sviluppo” a cura del Club di Roma. Ora, proprio 40 anni dopo, a pochi mesi da RIO+20, si stanno affacciando le prime iniziative di riflessione intorno alla figura di Aurelio Peccei, dirigente Fiat, torinese, ed all’opera che prese da lui l’ispirazione.

Vane celebrazioni? Se non vogliamo fermarci ai calendari ed alle ricorrenze, ma cercare invece un significato intorno alla questione ambientale, questa occasione può trasformarsi in ben altro. Anche in particolare per la questione dei parchi e del loro ruolo nel nostro paese.

Una iniziativa che interessa questa fondamentale opera è quella che segnalo e nella quale si sono cimentati Giorgio Nebbia e Luigi Piccioni. 1972-2012: sono trascorsi esattamente quaranta anni dalla pubblicazione del testo che ha avuto – assieme a Primavera silenziosa di Rachel Carson – la maggiore influenza sulla diffusione mondiale delle idee dell’ecologismo, cioè il rapporto I limiti alla crescita (noto impropriamente come I limiti dello sviluppo), realizzato per conto del Club di Roma dall’equipe del MIT guidata da Jay Forrester, Donella Meadows e Dennis Meadows.

Sulla base di un’ampia documentazione originale Luigi Piccioni e Giorgio Nebbia hanno ricostruito il modo in cui il rapporto venne accolto negli ambienti accademici, politici, ecclesiastici, sulla grande stampa e nel mondo del nascente ecologismo italiano. Il titolo dello studio è “I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-74″. Esso è liberamente disponibile (con licenza Creative Commons) come Quaderno n. 1 della rivista digitale “altronovecento” edita dalla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia. L’indirizzo al quale esso può essere scaricato è riportato qui di seguito (scarica) e il testo è visionabile in pdf (scarica)(anche scaricabile al mio profilo issuu) .

Intanto ritengo interessante segnalare l’ennesima iniziativa di studio in particolare di Luigi Piccioni, che già in diverse occasioni sta portando quel profilo dell’indagine storica del pensiero ambientale in Italia, che tante sorprese ed approfondimenti presenta e che sono rintracciabili nei suoi interessantissimi volumi come “Primo di cordata. Renzo Videsott dal sesto grado alla protezione della natura” ed. Temi. OppureCento anni di parchi nazionali in Europa e in Italia” ed. ETS Pisa come in contributi come quello su “Ambientalismo e movimenti socio-culturali” sul sito web del Gruppo di San Rossore.

Altro aspetto è invece quello che riguarda lo spunto di nuova riflessione che il grande tema sollevato dal Club di Roma pone alla nostra attenzione nei confronti delle politiche di protezione o di salvagurdia della natura. Già le occasioni di riflessione poste con le conferenze internazionali come il Quarto Congresso Mondiale delle Aree Protette di Durban del 2003 portavano come noto il ragionamento su terreni nuovi e di maggiore integrazione fra politica del parco e territorio: il congresso ebbe come tema centrale quello dei “Benefits beyond boundaries” (vantaggi  oltre i confini) a testimoniare il recepimento da parte della cultura internazionale della  conservazione del messaggio di “territorializzazione” della tutela ambientale e della  esportazione della qualità ecosistemica e gestionale che dalle aree protette dovrebbe  irradiarsi nell’intorno, coinvolgendo gradualmente l’intero contesto nelle “buone  pratiche” di governo ambientale che vengono attuate all’interno delle riserve. ( “In Sud Africa il Quarto Congresso Mondiale delle Aree Protette” di Bernardino Romano)  

E’ su questa prospettiva di impegno complessivo che il libro come I limiti dello Sviluppo si ha condotto e forse è proprio da questa rinnovata lettura che si dovrebbe fare ragioen intorno alla reale applicazione di un nuovo ruolo delle aree protette sul territorio, che invece, nonostante i Congressi mondiali sono ancora vissute e percepite dalle culture locali come “i giardini della tranquillità biogenetica” ovvero “i luoghi dove la natura rimane”.

Forse per superare quanto di più anacronistico oggi esista nel concepire la protezione, possiamo cogliere anche e proprio spunto dal dibattito intorno alle visioni di Aurelio Peccei, e di qui capire come cercare di affermare una nuova visione di cosa voglia dire fare protezione dell’ambiente e delle sue componenti.

Ad esempio possiamo provare a confrontare due storie parallele: da una parte quella della politica dei parchi piemontese che parte intorno alla metà degli anni 70′ con quella della nascita del dibattito sulla necessità di creare nuovi equilibri nel consumo delle risorse, anche questa come abbiamo visto della metà degli anni 70′. Due storie che sembrano essere diverse e su due piani distanti, e che invece a pensarci con attenzione, hanno entrambe attinenza con i temi del mantenere una qualità ambientale accettabile.

La legge dei parchi piemontesi è del 1975 e la spinta a proteggere nella politica regionale del Piemonte fondava le sue radici nella cultura della pianificazione affiancata a quella della cultura naturalistica. Una matrice che quindi non ha momenti di incontro con le politiche ambientali, demografiche o dello sviluppo economico.

A queste invece, dall’altro capo, fanno invece riferimento le visioni del rapporto di Aurelio Peccei e attraverso di queste le visioni e i temi che vengono toccati hanno molto a che fare con categorie e temi che riguardano lo sviluppo nel tempo delle comunità e delle società e quindi, come ci raccontano Nebbia e Piccioni: “Il libro si colloca anzitutto nella ricca scia degli studi sul futuro20, oggi piuttosto trascurati ma negli anni ‘60 in gran voga. Nati in ambito militare negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale21 gli studi sul futuro si sono diffusi a livello internazionale e hanno dato vita a iniziative pubbliche e private di vario tipo e a studi che hanno conquistato larga risonanza. Gli elementi comuni di questi studi, per il resto molto eterogenei, sono la constatazione della rapidità del cambiamento tecnologico, la certezza che gli scenari del prossimo futuro – non solo tecnologici ma anche socioculturali – saranno del tutto inediti, la convinzione che sia necessario dotarsi di uno sguardo nuovo e più sofisticato per affrontarli adeguatamente. Se l’intenzione primaria di Peccei e del Club di Roma non è quella di andare a ingrossare le fila degli studiosi che si occupano di futuro, punti di contatto, convergenze e riconoscimenti reciproci non mancano. Nel variegato panorama degli studi previsionali Peccei trova anzi forti consonanze con la corrente fondata dal francese Bertrand de Jouvenel, che si è autodefinita dei “futuribili” e che ha fondato diverse sezioni nazionali fuori della Francia. Quella dei “futuribili” è una versione moderata e riformista di tale corrente di studi, nata nel clima della programmazione francese degli anni ‘50 per opera di un commis d’état e di un grande intellettuale e basata sulla possibilità di descrivere razionalmente i vari futuri possibili, in modo da poter intervenire a ragion veduta. La specializzazione dei “futuribili” divengono infatti gli studi di previsione, di tipo congetturale e volti alla programmazione, soprattutto economica. Peccei e il Club di Roma trovano nei “futuribili” degli ascoltatori attenti e dei validi interlocutori, al punto tale che de Jouvenel stesso è cooptato nel 1970 all’interno del Club e la rivista italiana della corrente25 diviene un’importante sede di discussione sui temi dei Limiti. Più in generale, si può dire che l’iniziativa del Club di Roma e i Limiti appaiono espressione di un clima culturale oggi difficile da comprendere, segnato da una fortissima sollecitudine collettiva verso il futuro, sollecitudine che ha preso varie tonalità (fascinazione, speranza, preoccupazione, curiosità) e varie forme (studi e progetti, dibattito politico, fiction). Una sollecitudine collegata in ogni caso prima di tutto all’osservazione e alla percezione di un mondo in rapido, imprevedibile e – a seconda dei punti di vista – entusiasmante o inquietante cambiamento a causa del progresso tecnologico. Un mondo più veloce, più “potente”, quasi “magico” (capace cioè di interventi sulla natura non solo storicamente inediti ma persino inauditi, fantastici), più interconnesso.” 

Sono quindi due diverse forme di origine del pensiero della protezione, che traggono linfa da diversi ambiti anche disciplinari, diverse sensibilità e soprattutto a diverse modalità operative: quella protezionistica classica che si nutre di carte, limiti di vincoli imposti e liste rosse di specie in pericolo; l’altra quella del controllo dello sviluppo e delle politiche ambientali sulle risorse, che dialoga con le scienze economiche e sociali, con le politiche demografiche e con i modelli di sviluppo di una società.

Forse sta anche in questo passaggio la questione centrale e che oggi è alla base probabilmente di una difficoltà di slancio delle politiche delle aree protette, che deriva dalla sostanziale incapacità di slegarsi definitivamente da una visione separata della protezione, per affidarsi all’alveo delle culture sullo sviluppo e sulle “politiche del futuro”, abbandonando le visioni delle sole “imposizioni di vincoli”, che devono rappresentare solo uno strumento delle politiche ambientali e non “le politiche ambientali”.

Chiediamo certamente in tante sedi e sottolineiamo come tecnici e soggetti impegnati in questo settore di giungere a nuove alleanze fra tanti soggetti per salvare il pianeta dal suo depauperamento progressivo: ma forse dobbiamo partire dal fare la nostra parte, ad iniziare dalle culture della protezione, che devono creare loro nuove alleanze con l’insieme delle culture per ambiente, più ampie e complesse di quanto potevano immaginare i padri del protezionismo del secolo scorso.

Pubblicato il da Ippolito Ostellino | Lascia un commento

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