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Occorre ricordare la storia naturale della nostra specie, legata a questo pianeta, dove le leggi della natura governano il nostro futuro. Nei parchi sono leggi visibili, raccolte nelle culture stratificate del territorio. I parchi sono allora anche un fatto di cultura, che ritroviamo nel senso di chi abita un luogo, tradotto in paesaggio, e dove insieme alle dinamiche dell'abitare si muovono vita ed economia. Abbiamo bisogno di rinnovare allora il nostro modo di parlare di aree protette e di natura, con nuove visioni e un nuovo modo per comunicarle.

Dai paesaggi dell’alessandrino al governo del territorio

Il libro che il prf. Cinà presenterà al Castello del Valentino il prossimo 6 dicembre alle 17 alla Sala delle Cacce del Castello del Valentino a Torino è una occasione per riflettere intorno non solo al tema affrontato sui paesaggi dell’Alessandrino, ma anche una interessante occasione per riflettere intorno a quali strumenti usare per il governo del territorio.
Una occasione per un intervento come osservatorio del paesaggio dei Parchi del Po e della Collina torinese e per presentare alcune riflessioni che ho elaborato intorno alla questione del “che fare?” per la gestione delle risorse territoriali.
Cinà bene lo illustra nel suo saggio introduttivo, fra le politiche di piano, di progetto e le nuove tendenze “partecipative” stimolate dalla Convenzione Europea del Paesaggio. Ma vi è da chiedersi se la riflessione non debba tenere in debito conto operativamente la questione non solo dello strumento ma anche e contemporaneamente del “soggetto” che lo utilizza. Una riflessione importante proprio ora, quanto il ruolo del soggetto pubblico è sotto forte tensione e riforma. Di qui bisogna ripartire.
Infatti il saggio sulla efficacia del PPR che Cinà propone e segue nel saggio proprio sul tema delle ricadute pone l’accento, oltre che della cogenza ovvero della chiarezza delle norme previste e quindi di come queste si ribaltino sui territori locali. Il quadro che ne viene fuori ed è tratteggiato è a tinte non così deboli e per certi versi fa riflettere alquanto.
Il territorio per essere pronto ad accogliere una normativa di cosa avrebbe quindi bisogno?Di norme generali chiare in primis, derivanti da un apparato di conoscenza forte. Ma su questo è evidente che le incertezze istituzionali e i ruoli che a queste corrispondono non hanno facilitato negli ultimi anni l’assunzione di un quadro certo e sicuro. Il tema del piano e di chi lo assume come suo strumento resta pertanto in primo piano ma parzialmente irrisolto per cause di equilibri istituzionali non definiti.Inoltre e in seconda battuta occorre essere dotati di progetti locali evidenti e chiari e sui quali richiamare impegno e interesse delle realtà locali. Su questo tema della territorializzazione specializzata delle azioni si dovrebbe avere di più il coraggio di andare,  senza cedere alla visione pervasiva del paesaggio ed alla questione del perché premiare un territorio piuttosto che un altro.Poi vi sarebbe bisogno di soggetti che attuino quei progetti di area, i progetti bandiera come chiamati da Cinà, perché senza questi non esiste progetto di scala territoriale che regga. I parchi a questo proposito ne sono un esempio. Il PTO del Po è rimasto applicato solo perché vi era una struttura che monitorava con un parere la sua applicazione, una sorta di agenzia d’urbanistica sul territorio rappresentata dai parchi del Po, unici soggetti a fare questo sino al 2011 e proseguono ora, in quanto solo con la recente normativa il parere dei parchi è divenuto obbligatorio per tutte le aree protette.E sul tema agenzie assume un ruolo la questione degli Osservatori del Paesaggio. A questo aspetto, del piano partecipativo in qualche misura, occorrerebbe avere a disposizione l’avvio del progetto di un osservatorio regionale al quale aderiscano gli osservatori spontanei sino a qui nati spesso per iniziative locali e private. Se un nuovo modo di verificare i progetti locali mediante uno strumento di tale natura fosse messo in opera ci si potrebbe dotare di strumenti locali efficaci e che inneschino quel feedback del quale il piano regionale ha evidente bisogno per dare vita alla sua azione.Beninteso, a patto che scala istituzionale e scala progettuale funzionino. La differenza la farebbe forse il fatto di sapere che le due scale superiori sappiano che il l’acoro da loro fatto fosse poi seguito da qualcuno localmente, ridando fiducia al significato della redazione di pile o giga di tabelle, perché confortati dall’avere nome e cognome di chi poi avrà cura di seguire localmente questi temi alla scala giusta. E sul tema della scala occorre a mio parere pensare che la scala sia quella intercomunale, dei comprensori locali, delle agglomerazioni di comuni, quindi non quella delle provincie, ed inoltre che la stessa natura dell’operatore che si trova a lavorare a quella scala non sia solo pubblica ma affidata a soggetti misti e con spirito anche imprenditoriale. Non si tratta di modelli privatistici di uso delle risorse, ma di sistemi pubblici che incamerino in se le istanze e gli interessi privati locali, e con questi individuino le strade attuative dei progetti di area individuati dal PPR.In sintesi, occorre che i piani superiori funzionino a patto di impegnarci a costruire le strutture locali che diano gambe concrete agli elenchi normativi.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato il da Ippolito Ostellino | Lascia un commento

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