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Aree protette: una conquista di civiltà, un indice di progresso, una grande risorsa per il futuro.
Occorre ricordarlo.

i parchi: dalla crisi al rilancio

Documento di San Rossore, 13 ottobre 2010

Aree protette: una conquista di civiltà, un indice di progresso, una grande risorsa per il futuro
Occorre ricordarlo?
Altrove no, ma in Italia paradossalmente si: le aree protette, che si avviano a celebrare un secolo e mezzo di vita, sono una conquista di civiltà, un bene collettivo che è anche un eccellente indicatore del grado di modernità di un paese.
Nate, anzi inventate, “a beneficio e per il godimento del popolo” da una nazione che si stava avviando ad essere la più ricca e la più tecnologicamente avanzata del mondo, le aree protette hanno conquistato le menti e il cuore dell’opinione pubblica delle città, hanno via via trovato il modo non solo di coesistere con le popolazioni locali ma anche di stimolarne la crescita culturale ed economica, hanno inventato nuovi modi di considerare e di amministrare il territorio e le risorse naturali.

E, a testimonianza del loro essere conquista di civiltà ritenuta ormai irrinunciabile, sono state adottate in quasi tutti i paesi del mondo e sono cresciute in modo esponenziale, soprattutto negli ultimi decenni. Il World Database of Protected Areas certifica l’anno di istituzione (per gli anni dal 1875 al 2005) di 42.073 aree protette sulle circa 150.000 oggi esistenti. Questa è la progressione:

Periodo
Aree istituite
1875-1886
9
1887-1898
44
1899-1910
45
1911-1922
159
1923-1934
429
1935-1946
1433
1947-1958
1987
1959-1970
4331
1971-1982
8502
1983-1994
13066
1995-2005
12068
Non meno impressionante è il successo dei parchi e delle aree protette in termini di superficie tutelata:
Nei decenni più vicini a noi, come se tutto ciò non bastasse, esse sono divenute sempre più oggetto di politiche e normative sovranazionali, sia attraverso corpi elettivi come l’Unione Europea, sia attraverso agenzie mondiali come l’Uicn o l’Unep, mentre è notizia di questi giorni che i novanta paesi riuniti a Nagoya nella decima conferenza della Convenzione sulla Biodiversità hanno concordato che tra gli obiettivi-chiave per i prossimi anni è l’aumento “sensibile” del numero e dell’estensione delle aree protette.
In condizioni normali non occorrerebbe nemmeno ricordarlo, ma anzitutto di questo stiamo parlando quando proviamo a parlare di parchi naturali e aree protette, oggi, in Italia.
In Italia, una crisi profonda
La gravità della situazione delle aree protette del nostro paese, in effetti, non è mai stata evidente e allarmante come in questo momento.
Dai parchi nazionali a quelli regionali a tutti gli altri tipi di aree protette, che in questi anni hanno accresciuto, consolidato, diffuso una presenza importante in un ambito che ci aveva visto per tanti anni in posizioni di coda, tutti i comparti rischiano ormai una crisi pesantissima e potenzialmente irreversibile.
A darne la misura non sono soltanto i drammatici tagli finanziari, che già dimostrano una sconcertante irresponsabilità di governo, ma anche tutta una serie di minacce e di proposte strampalate che vanno dalla abrogazione pura e semplice dei parchi regionali ad una indefinita privatizzazione dei parchi nazionali, privatizzazione che oltretutto non risulta essere nell’agenda di alcun paese del mondo. Negli ultimi mesi, peraltro, le cronache rimandano a una situazione sconcertante, impensabile anche solo pochi anni fa, in cui si susseguono e si accavallano commissariamenti, prolungate gestioni provvisorie e persistenti diatribe politico-istituzionali che non fanno che produrre paralisi, disorientamento e discredito nei confronti del mondo delle aree protette. Su questo quadro, già estremamente cupo, pesa inoltre una ormai annosa latitanza del Ministero dell’Ambiente che ha rinunciato da tempo a qualsiasi ambizione di proposta e di concertazione nazionale, concertazione che l’attuale, confuso dibattito sul federalismo rischia di pregiudicare ancor più, incentrato com’è sull’idea di radicali separatismi che impedirebbero qualsiasi politica di sistema. Parchi e aree protette, com’è noto, sono al contrario istituzioni che più di altre hanno un bisogno vitale di tale tipo di politiche. Come se tutto ciò non bastasse, negli ultimi anni anche la stessa – cruciale – azione di supporto e di stimolo tradizionalmente proveniente dal mondo ambientalista appare sensibilmente appannata. Se questo è il contesto istituzionale, quello culturale e del dibattito pubblico non è stato migliore. Mentre infatti le grandi questioni ambientali (biodiversità, cambiamento climatico, energie rinnovabili) hanno continuato a trovare spazio e hanno attirato anzi un’attenzione crescente, le problematiche dell’amministrazione, della gestione politico-istituzionale dell’ambiente e del territorio sono progressivamente scomparse dall’orizzonte, impoverendo la stessa capacità di progetto e di governo. Tra le cause di questo generale appannamento è stato, tra l’altro, il persistere di una sempre più artificiosa contrapposizione tra politiche di tutela ambientale e processi economico-sociali, proprio nel momento in cui tra i due momenti si stabilisce un legame imprescindibile, tanto più alla luce della crisi economica ed ecologica globale. Il ruolo dei parchi, che trova proprio nella sperimentazione di nuove sintesi tra i due momenti, viene necessariamente mortificato se non si colgono i nessi tra ecologia ed economia e se anzi si insiste artificialmente a contrapporle. La proposta di convocare la terza conferenza nazionale dei parchi, avanzata a più riprese, scaturiva appunto dall’esigenza di arrestare questa allarmante caduta e di ridelineare collettivamente una chiara prospettiva nazionale per il futuro dei parchi. Il rifiuto del Ministero e il più totale disinteresse da parte della maggioranza delle regioni possono essere interpretati come un ulteriore sintomo di crisi, anche dal punto di vista della sensibilità istituzionale e della cultura della tutela.
Questo drammatico avvitamento verso il basso del sistema italiano delle aree protette si verifica, giova ricordare anche questo, in coincidenza con importanti appuntamenti internazionali che ovunque stanno stimolando e arricchendo l’azione dei governi nazionali e locali e degli enti di gestione. L’Anno della biodiversità è uno di questi, ma si può ricordare anche l’importante passaggio costituito dall’entrata in vigore della Convenzione europea del paesaggio, e suona perciò tanto più come una beffa tutta italiana il fatto che di recente al Piano dei parchi sia stata sottratta la competenza proprio sul paesaggio senza che nessuna voce si sia alzata per stigmatizzare il fatto.
Più in generale si può osservare che le leggi italiane più importanti per un più efficace e incisivo governo del territorio e dell’ambiente – la legge 183 sulla protezione del suolo e la legge 394 sui parchi – sono in stato di abbandono: non solo scarsamente applicate, ma anche sottoposte a successive, silenti lesioni che ne hanno pregiudicato progressivamente il funzionamento e l’efficacia. Nel caso della legge 394 si può addirittura parlare senza eccessiva esagerazione di uno smantellamento dei parchi realizzato, più di recente, anche in nome della riduzione dei costi della politica e della gestione istituzionale. Una giustificazione, questa, che assolutamente non sta in piedi se si considera che le aree protette italiane sono storicamente e cronicamente sottofinanziate rispetto a quasi tutti gli altri paesi eruopei.
La necessità di un rilancio
Ma la crisi dei parchi rientra in nella crisi più generale che vivono oggi in Italia tutte le istituzioni e ne risente inevitabilmente, ed è proprio per questo un rilancio di una politica nazionale dei parchi non può limitarsi a richiedere di arrestare il loro strangolamento finanziario e di applicare in modo corretto la legge quadro. Oggi tale rilancio deve necessariamente passare per la ridefinizione della missione, del ruolo, delle responsabilità e delle competenze delle aree protette alla luce delle esperienze maturate negli ultimi venti anni nel nostro paese come in tutta Europa.
-Il ruolo di pianificazione territoriale dei parchi. Luci e ombre dei piani

Come si fa a non ricordare, ad esempio, che l’ampliamento delle superfici protette terrestri (assai meno quelle marino-costiere) grazie anche a Rete Natura 2000 ha contribuito a estendere efficacemente le politiche di tutela della biodiversità e dell’ambiente anche nei territori esterni ai parchi. Queste politiche richiedono oltretutto una gestione sempre più integrata del territorio interno ed esterno alle aree protette che deve far ricorso a un rinnovato governo del territorio, sistemico e attentamente pianificato. I casi in cui tutto ciò è già avvenuto hanno mostrato che è possibile fare dei parchi quel laboratorio di sperimentazione di attività ecosostenibili di cui si era iniziato a parlare in Italia, in largo anticipo sui tempi rispetto ad altri paesi europei, già negli anni ‘70. Proprio grazie a tali laboratori il nostro paese può affrontare le nuove, incalzanti esigenze imposte dalla crisi ambientale avvalendosi di elaborazioni e progettazioni che hanno saputo coinvolgere anche il mondo della ricerca che sempre più deve considerare una nuova gestione ambientale come una opportunità unica. A fronte di queste accresciute responsabilità e alla maturazione di un notevole bagaglio di esperienze e di competenze, il mondo dei parchi deve saper guardare anche ai suoi insuccessi. E tra ciò che non ha funzionato o ha funzionato meno dobbiamo riconoscere che proprio la pianificazione è stato uno dei settori più gravati da ritardi e insuccessi. I piani dei parchi hanno infatti conosciuto ritardi, manchevolezze e burocratizzazioni che ne hanno tarpato le potenzialità di proiezione culturale e amministrativa fuori dei confini delle stesse aree protette. Si è più fallito, insomma proprio là dove i parchi avevano un compito importante: di sperimentazione, di partecipazione democratica, di educazione, di progettazione. E su questi limiti bisogna riflettere, senza nasconderseli.
-La questione delle scale e quella della ‘leale collaborazione’

Un altro aspetto cruciale è quello che è stato definito della “leale collaborazione”. L’intervento in campo ambientale avviene oggi su varie scale territoriali e coinvolge soggetti diversi, anch’essi operanti su scale diverse e con caratteristiche diverse: soggetti di gestione ambientale, amministrazioni di vario genere, elettive o meno, eccetera. L’ambito delle aree protette è un ambito privilegiato di sperimentazione in quanto qui più che altrove – ancora una volta – è indispensabile che questi diversi soggetti collaborino nella messa a punto dei programmi e della loro attuazione e gestione su un piano di pari dignità e mettendo a frutto strumenti ed esperienze a tutti i livelli. Nei casi in cui la “leale collaborazione” così intesa è stata correttamente praticata nessuno ne ha sofferto perché una efficace politica dei parchi e delle aree protette al pari di quelle dei bacini e distretti idrografici ha giovato al sistema istituzionale e alla sua capacità di rispondere alle legittime aspettative delle comunità. Dove ciò invece non è avvenuto si sono create disarticolazioni e conflittualità, sia sul piano nazionale che regionale, che hanno provocato danni, disagi e malfuzionamenti.
Proprio alla luce di tutto questo, è chiaro che un rilancio non velleitario di politiche di sistema per i parchi e per le aree protette richiede non soltanto un appello e uno stimolo ma anche e soprattutto una riflessione approfondita, capace di individuare le condizioni alle quali tale rilancio sia possibile.
Una seria e profonda riforma
Il punto di partenza da ribadire con forza e senza incertezze è che la gestione dei parchi deve restare fermamente ancorata al sistema istituzionale ossia alla responsabilità e titolarità pubblica come lo sono il paesaggio e il suolo. Titolarità che non esclude –al contrario- il coinvolgimento di attività e interessi privati come d’altronde avviene già nelle attività del turismo all’agricoltura, alla valorizzazione dei prodotti di qualità della pesca e in altro ancora. Un coinvolgimento che non deve tuttavia diventare pretesto per politiche di abdicazione del ruolo che compete alla responsabilità pubblica delle nostre istituzioni. In secondo luogo, si può iniziare a riflettere alla possibilità di modificare la composizione e la dimensione operativa degli enti di gestione delle aree protette – sia quelli previsti dalla legge quadro, sia quelli previsti dalle leggi regionali – modulandoli sulle specificità delle singole aree e sul ruolo delle comunità del parco. In tale ambito vanno sicuramente riviste – anche alla luce delle esperienze generalmente poco positive di questi ultimi vent’anni – le competenze degli enti dei parchi nazionali che non hanno attualmente la responsabilità piena del personale, dal direttore (scelto e dipendente dal Ministero) alla vigilanza (dipendente dal Ministero dell’Agricoltura); il tutto senza considerare che sopravvive anche la Commissione di riserva per le aree protette marine che rispetto ai tempo in cui fu approvata la legge sul mare non ha più alcun senso e giustificazione. In terzo luogo per i parchi nazionali, ma non solo per essi, andrebbero anche definite, in forma concertativa tra il Ministero e le Regioni territorialmente interessate, le specifiche missioni di scopo per ognuno di loro e su questa base dovrebbero essere fissate meglio le competenze che possono e debbono essere poste in capo al parco connotandone così, meglio di quanto avvenga ora, la loro funzione nel quadro del sistema nazionale delle aree protette. E’ necessario, insomma, disegnare un ente che per composizione corrisponda chiaramente ai compiti che gli sono affidati i quali devono a loro volta essere assolutamente chiari, soprattutto nel senso di non confondersi con quelli degli altri soggetti comunque chiamati ad occuparsi anche di ambiente: un parco non deve e non può fare di tutto perché non su tutte le questioni esso può e deve intervenire, magari solo per l’ansia di non essere estromesso da un qualsiasi ruolo. In generale, sarebbe anzi opportuno individuare forme innovative di gestione dei parchi, più corrispondenti alla missione loro assegnata o ai contesti territoriali dei quali essi fanno parte. Nelle aree protette appenniniche, siano esse parchi nazionali o regionali, sarebbe ad esempio molto utile sperimentare forme gestionali in grado di garantire un costante coordinamento sovraregionale a partire da uno snellimento o unificazione delle strutture gestionali esistenti per ambiti territoriali tra di loro contermini. Non diversa è la situazione di altre importanti realtà come quella alpina che specialmente dopo il riconoscimento delle Dolomiti come patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco deve saper svolgere sempre più un ruolo internazionale come d’altro lato deve avvenire per quanto riguarda il Mediterraneo e le coste a partire dal Santuario dei cetacei da troppo tempo in crisi che si aggiunge a quella delle aree protette marino-costiere finora tagliate fuori di fatto da quelle politiche di integrazione previste e volute dall’Unione Europea. Si dovrà in sostanza riuscire a individuare nel contesto nazionale le giuste scale di politiche di sistema non ignorando, ad esempio, le specificità del Sud, dove a differenza del Centro-Nord operano grandi parchi nazionali le cui politiche di raccordo tra dimensione locale e aree vaste presentano notevoli difficoltà e al contempo problematiche cruciali per la costruzione di un sistema nazionale di parchi e aree protette. Tutte queste complesse questioni ripropongono in un contesto nuovo la tradizionale questione della classificazione dei parchi, in un contesto oltretutto in cui la cui tipologia si è arricchita di nuove voci come i parchi metropolitani e agricoli, realtà non più ignorabili. Una politica italiana delle aree protette adeguatamente rilanciata deve infine proporsi come obiettivi strategici la realizzazione della Carta della natura, un piano nazionale della biodiversità, la progettazione e la gestione di politiche della ruralità e della tutela del paesaggio e del suolo, che rientrano pienamente nell’ambito della missione delle aree protette stesse. Queste ultime sono per eccellenza, infatti, i contesti in cui la pianificazione deve assumere caratteri di unitarietà e in cui l’intero territorio deve essere riordinato senza soluzione di continuità fra spazi densamente urbanizzati e spazi aperti. Solo a queste condizioni i parchi – tutti i parchi e le aree protette – possono ritrovare un il ruolo specifico che loro compete, un ruolo peraltro sempre più raccordato e armonizzato con quello più generale di un sistema istituzionale che si adegui finalmente al dettato costituzionale. Dinanzi ai ripetuti e drammatici disastri naturali che si abbattono con crescente frequenza sul nostro paese con costi umani e ambientali tremendi come è possibile pensare ad una gestione seria ed efficace dei nostri fiumi, bacini idrografici, del suolo senza un raccordo stretto tra parchi e autorità di bacino e i loro strumenti di pianificazione e di intervento che si tratti del Po, dell’Arno o del Sarno.E’ una scelta, questa, che va in direzione decisamente opposta rispetto a quella di chi chiede – in nome della volontà popolare che si esprime nel voto – il passaggio delle competenze dei parchi regionali, che per altro non sono trasferibili alle province, in quanto la pretesa di ricondurre i ruoli di programmazione e pianificazione del territorio e dell’ambiente esclusivamente ai livelli elettivi ha già fatto gravi danni aprendo la strada a incursioni centralistiche che devono invece essere fortemente delimitate. Un nuovo governo del territorio che voglia finalmente invertire le tendenze rovinose in atto in tutti i comparti ambientali richiede insomma che tutti i protagonisti – elettivi e non – possano davvero operare in leale collaborazione e non in competizione e concorrenza tra loro. Finora, infatti, di tale concorrenza si sono giovati solo quegli interessi speculativi che hanno fortemente compromesso l’ambiente senza peraltro portare sensibile giovamento economico. Queste sono, a nostro avviso, le coordinate dalle quali è necessario muovere affinché il sistema istituzionale nel suo insieme – dal parlamento al governo, dalle regioni agli enti locali – sia messo in grado di pensare a un rilancio dei parchi e del loro ruolo e di mettere mano a tutte quelle misure legislative, programmatiche e di confronto rese ormai urgenti dalla grave crisi che si è aperta. Si tratta di un impegno difficile che non può assolutamente prescindere – oggi più di ieri – sul sostegno dei mezzi di informazione e dell’opinione pubblica, in particolare di quel volontariato che a vario titolo e nelle attività più diverse si dedica da anni con ottimi risultati al turismo sostenibile, all’educazione ambientale, alla tutela della fauna e della flora. Un volontariato tanto più prezioso e meritevole, in realtà, in una fase in cui le risorse e il personale dei parchi e delle aree protette sono sovente ridotte al lumicino. Tale coinvolgimento può e deve essere cercato anche con mezzi e strumenti nuovi in grado di valorizzare e amplificare il robusto sostegno che alla missione delle aree protette – nonostante il già citato disinteresse delle forze politiche e di molte istituzioni – giunge all’opinione pubblica. Va dunque riaffermata con forza e chiarezza l’esigenza che il governo del territorio, specialmente nelle sue esplicazioni ambientali, deve camminare su più gambe e non soltanto su quelle dei livelli e dei soggetti elettivi. I livelli elettivi senza l’apporto di soggetti ‘speciali’ – e i parchi come i bacini lo sono – non possono pensare e realizzare in modo efficace delle reali politiche di sistema, come confermano drammaticamente – giorno dopo giorno – i frequenti disastri ambientali, a partire da quelli legati al dissesto idrogeologico. E i livelli elettivi, senza il contributo di idee e di partecipazione di quella parte della società civile e dell’opinione pubblica che vede nelle aree protette una sorgente preziosa di sussistenza, di idee nuove e di ispirazione morale e culturale, rischiano spesso di smarrire il significato e l’importanza che in una società moderna rivestono le aree protette medesime.

Pubblicato il da Renzo Moschini | Lascia un commento

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