I parchi oggi e domani
Il mondo dei parchi sta vivendo una stagione di grave disagio, di incertezze crescenti sul suo futuro prossimo; su questo non mi pare possa esservi dubbio alcuno. Naturalmente non tutti la vivono allo stesso modo né gli effetti negativi peraltro ben visibili si ripercuotono e si riverberano con le stesse conseguenze sui parchi nazionali, quelli regionali o le aree marine protette. E tuttavia il clima generale non risparmia nessuno.
Se su questa premessa si può agevolmente convenire meno scontato è risalire alle cause e soprattutto alla individuazione dei rimedi.
Per evitare errori pericolosamente fuorvianti è indispensabile perciò capire da dove nasce questa crisi che non riguarda soltanto i parchi. Essa, infatti, è un aspetto, un momento –certo con tutte le sue peculiarità e specificità- di una crisi più generale che investe le istituzioni nel suo complesso, da quelle nazionali a quelle regionali e locali impegnate in un passaggio i cui approdi sono tutt’altro che chiari nei tempi e soprattutto nei contenuti.
Se non prendiamo le mosse da qui rischiamo di non venirne a capo e perderci in un conflittualità destinata ad accrescere il già diffuso senso di disagio e sfiducia senza portarci da nessuna parte.
Con la legge quadro del 91 e prima ancora con l’esperienza dei parchi regionali soprattutto in alcune regioni i parchi sono diventati soggetti istituzionali espressione del sistema istituzionale nel suo complesso dallo stato agli enti locali.
I parchi e con loro altri protagonisti ambientali nella gestione del suolo, nella lotta contro l’inquinamento, a tutela del paesaggio e della biodiversità sostenuti da Protocolli e Convenzioni internazionali e sempre di più da normative comunitarie che condizionano gran parte delle legislazioni e normative nazionali, sono diventati protagonisti autorevoli e qualificati di quel governo del territorio che ha investito ambiti nuovi rispetto a tradizioni ancorate prevalentemente a gestioni di tipo urbanistico e quindi urbano più impegnate ad occupare spazi piuttosto che a gestirli in base a nuove finalità.
A questa fase che ha segnato una stagione istituzionale importante i parchi hanno partecipato non solo attivamente ma connotandone al meglio le novità a partire da una pianificazione di tipo nuovo e davvero ‘speciale’.
Anche se questa esperienza presenta naturalmente luci e ombre è innegabile che essa si è ben inserita nel contesto europeo che negli ultimi anni ha visto crescere notevolmente la presenza e il ruolo dei parchi e delle altre aree protette.
Possiamo dire quindi tranquillamente e con legittimo orgoglio di essere riusciti a superare un ritardo storico tante volte rimproveratoci e a giusta ragione. A rendere possibile questa crescita che ha permesso ai parchi di uscire per molti versi da quell’isolamento che aveva connotato la tradizione dei vecchi parchi nazionali storici è stata innanzitutto la collaborazione istituzionale tra stato, regioni ed enti locali. Dove essa infatti non è riuscita a superare vecchie diatribe e conflitti – vedi per tutti il Gennargentu- si è rimasti al palo. Ma questa è stata l’eccezione perché la regola per fortuna è stata quella di riuscire –certo non senza mal di pancia – a mettere in campo una ‘cooperazione’ istituzionale che non ha uguali in nessun altro comparto e settore. Persino tra soggetti affini –vedi la collaborazione intercomunale- le cose hanno registrato più fallimenti che successi. Nel caso dei parchi queste resistenze invece si sono vinte non soltanto tra comuni ma anche tra comuni, province e regioni e –anche se non sempre al meglio- con lo stato. Anche in comparti più ‘settoriali’ ma pur sempre di interesse diciamo generale –vedi i bacini idrografici- non si registra un analogo successo.
Tanto è vero se in una fase iniziale erano molti i comuni che resistevano all’idea di essere inclusi in un parco oggi sono più quelli che vogliono entrare di quelli che vogliono uscire.
E’ un aspetto che specie in questa fase di transizione istituzionale dobbiamo tenere ben presente più di quanto finora è avvenuto in un dibattito che sembra ignorare quanto questo profilo sia importante in un paese dove il campanile troppo spesso fa ancora legge. Per essere ancor più chiari i parchi -istituzionalmente parlando- sono stati e sono un soggetto altamente aggregante intorno a scelte impegnative e per molti versi nuove come quella della pianificazione ambientale. Potremmo dire che mentre il settorialismo introduce sovente elementi competitivi e divisori tra livelli istituzionali i parchi con le loro finalità risultano al contrario uno stimolo forte a quella ‘leale collaborazione’ che non di rado purtroppo sembra appassionare poco.
I riscontri possiamo trovarli agevolmente nel contesto nazionale come in quelli regionali anche qui naturalmente con luci e ombre ma con la conferma –ecco il punto- che la legge quadro nel suo impianto generale ha funzionato come generalmente hanno funzionato quelle regionali che in diverse regioni sono state anche di recente –come in Emilia, in Piemonte, in Liguria ‘aggiornate’ e rese più conformi a nuove istanze.
E le ombre che riguardano soprattutto le aree protette marine non sono dovute certo principalmente come si continua imperterriti a sostenere alla normativa, ma ad una precisa cocciuta volontà politica di cui troviamo una clamorosa conferma anche in proposte di legge piuttosto recenti. E la ragione principale di questo grave ritardo sta proprio nella precisa volontà di gestire le aree protette marine non con la leale collaborazione istituzionale ma con il comando ministeriale che ha assunto via via anche connotazioni grottesche.
Che alla base di tutto questo ci sia la inadeguatezza della legge è una sciocchezza pura e semplice come del resto riconobbe lo stesso ministero dell’ambiente quando dovette spiegare perchè la famigerata commissione dei 24 che modificò malamente il codice ambientale lasciò fuori la 394; perché –disse il sottosegretario Tortoli- non aveva bisogno di modifiche importanti. Del resto se la cause stavano davvero soprattutto nella legge come si è ripetuto fino alla noia anche dopo pronunce della Corte dei conti che affermavano esattamente il contrario, perché non sono mai state avanzate proposte specifiche al riguardo?
Che il tarlo non stesse e non stia nella legge -che naturalmente può essere aggiornata e in qualche caso anche migliorata proprio in base all’esperienza di questi anni- lo si visto chiaramente quando si è cominciato a parlare di un nuovo ruolo dei parchi. In maniera certo confusa e non sulla base di un disegno preciso per quanto discutibile. No, si è preso le mosse come si è fatto peraltro per tanti altri aspetti riguardanti il funzionamento e il ruolo delle istituzioni, dalla crisi economico-finanziaria, dal piatto che piange, dai costi insopportabili, che riferiti ai parchi sembrano una barzelletta, per dire che devono pesare il meno possibile nel bilancio della stato che tradotto in termini politico-istituzionali significa che devono avere un ruolo sempre meno incisivo nelle politiche del governo del territorio. D’altronde quando con il codice dei beni culturali sottrai ai piani dei parchi la parte paesaggistica è chiaro che il loro piano perde di efficacia, allunga i suoi tempi di messa a punto e quindi riduce concretamente e notevolmente la sua possibilità di incidere presto e al meglio sulle scelte di programmazione e gestione degli interventi ambientali.
Se lo sfondo rimane perciò segnato da cose vaghe e confuse da cui emerge soprattutto una sconcertante ignoranza e disinformazione su ciò di cui si parla è altrettanto vero che gli effetti sui parchi si avvertono già nella loro gravità e cioè in una emarginazione e ridimensionamento del loro ruolo. E che ciò avvenga proprio nel momento in cui tutto l’assetto istituzionale dovrebbe essere riformato per renderlo più efficace nel governo del territorio e dell’ambiente suona prima ancora che contraddittorio provocatorio. Del resto nel primo testo della bozza Calderoli si era prevista l’abrogazione degli enti parco regionali poi cancellata per le giuste proteste non solo delle regioni, il che la dice lunga più di ogni altra considerazione.
Come in certi casi di crisi della coppia quando si comincia a scaricare il proprio partener prima di andare dall’avvocato, anche qui ministri e ministeri se la prendono con i parchi accusati di spendere troppo, di occupare poltrone e via denigrando. Cos’altro può significare, ad esempio, il fatto che mentre tira quest’aria e si registrano chiaramente i disagi dei parchi il rifiuto persino di coinvolgerli in un confronto da tempo inutilmente richiesto da Federparchi di una terza Conferenza nazionale per capire e discutere il senso di quel che bolle in pentola.
Insomma, si rifiuta senza prendersi neppure la briga di darne una qualche decente giustificazione e spiegazione persino una ‘audizione’ ai parchi. E se il governo e il ministro si mostrano del tutto sordi e disinteressati a questa ragionevolissima richiesta avanzata già all’ultimo congresso di Federparchi oltre un anno fa non è che il parlamento abbia finora mostrato maggiore interesse e struggimento per quel che sta accadendo. E non si dica che al Senato è stata presentata una proposta di legge di modifica della 394 perché –dirò qualcosa nel merito più avanti- prima di mettere mano a modifiche di una legge quadro così importante il meno che si deve fare e conoscere la stato delle cose e su quelle raccogliere elementi indispensabili prima di mettere mano a qualsiasi modifica normativa. Ma –si dirà-il parlamento ha fatto qualche indagine conoscitiva a suo tempo. E’ vero ma chi le ha lette non vi ha trovato certo –come normalmente avviene o dovrebbe avvenire con le indagini parlamentari da che mondo è mondo- elementi, dati, proposte dalle quali si possa seriamente ricavare materia per un lavoro serio.
Si vada a vedere l’indagine parlamentare a suo tempo svolta sulla legge 183 –poi purtroppo regolarmente ignorata- e si capirà di cosa ci sarebbe stato bisogno e ci sarebbe ancora bisogno per la legge 394. Anche il parlamento evidentemente è di memoria corta. Certo, le ultime sortite almeno su un punto non sono state inutili e cioè nel riconoscere che i parchi non sono una fonte di spreco come con leggerezza qualcuno continua irresponsabilmente a sostenere. Non è molto ma anche quel poco è stato puntualmente snobbato se oggi si continua a tagliare le già magre risorse e si preannunciano modifiche sia da parte del ministero che del parlamento che mortificherebbero la legge accentrando ulteriormente le competenze statali e proprio nel comparto marino. Scampata per un pelo dalla commissione dei 24 e non del tutto dal nuovo codice dei beni culturali la legge quadro incapperebbe ora in un pesante stravolgimento centralistico. L’articolato, infatti, si apre con la cancellazione del riferimento ai ‘tratti di mare prospicenti’ alla regione che riconosce a queste ultime un ruolo e una ‘competenza’ in una ambito nel quale lo stato da sempre –anche dopo la legge dell’82 sulle coste- vuole decidere da solo. Ecco, malgrado lo stato ‘preagonico’ delle aree marine protette –come da più parti è stato denunciato- il ministero e i firmatari della proposta di legge e proprio nel momento in cui si declama l’avvento del federalismo, vorrebbero tagliar fuori del tutto le regioni dalla gestione marino-costiera. Altro che integrazione marino-costiera di cui parla l’Unione europea, qui siamo all’esproprio puro e semplice che modificherebbe in un certo senso anche la nostra geografia visto che nessuna regione risulterebbe -dopo la cura- ‘prospiciente’ al mare.
Se questa è grosso modo la situazione presente sulla quale incombono come abbiamo visto provvedimenti e procedimenti niente affatto confortanti si tratta di capire come dobbiamo muoverci, cosa dobbiamo fare, proporre, sostenere e non soltanto nei confronti di Roma. La partita infatti ha e dovrebbe sempre più vedere scendere in campo anche altri soggetti istituzionali e non. Su quale terreno? Direi che – e ciò non vale naturalmente solo per i parchi- si deve prendere atto che la crisi planetaria richiede che economia e ambiente devono uscire da quella separazione dove la prima comanda e il secondo segue. Semplificando al massimo e in riferimento ai parchi direi che ciò dovrebbe comportare un solo piano in cui si raccordino e si integrino sia la parte ambientale che quella socio-economica. Purtroppo con il codice ultimo sui beni ambientali i piani oggi diventano addirittura tre essendovi stato aggiunto quello paesaggistico la cui sala macchine è stata spostata presso le Sopraintendenze. Tutto questo implica e richiede più che mai che i parchi non solo restino ma diventino ancor più protagonisti di quel governo del territorio di cui si sono perse le tracce a partire proprio da quei documenti che dovrebbero inaugurare la stagione federalista. Eppure la legge 394 parla di assetto del territorio nazionale ‘anche in riferimento ai valori naturali e ambientali’.
E qui si viene ad un nodo cruciale che non riguarda soltanto i parchi ma quella partita istituzionale a cui ho fatto cenno.
Una partita in cui si gioca non il ridimensionamento del ruolo dello stato centrale ma una sua ridefinizione senza la quale anche il decentramento o come vogliamo chiamarlo non funzionerà al meglio. Anche sotto questo profilo la vicenda dei parchi è esemplare perché sebbene ciò possa apparire contraddittorio rispetto a quanto abbiamo detto sulla inveterata vocazione centralistica ministeriale, quello che più è mancato è proprio un adeguato e chiaro ruolo nazionale. Ruolo a cui la legge 426 aveva dato in aggiunta alla legge 394 già sufficientemente chiara su questo punto, precise linee guida. Gestione integrata delle coste, Convenzione alpina, APE, Santuario dei cetacei cos’altro sono ed erano se non chiari punti di riferimento derivanti anche da precise politiche e direttive comunitarie o voti del parlamento sulla base delle quali costruire un vero sistema nazionale di parchi e di aree protette che è cosa diversa evidentemente da un assemblaggio spesso confuso di aree protette.
Ma su questo piano il ministero ha brillato per la latitanza, l’approssimazione tanto è vero è da anni che non presenta neppure quella relazione annuale al parlamento a cui è tenuto per rendere conto appunto di cosa si è fatto e si deve fare sulla base di dati e riflessioni che da anni non arrivano in parlamento il quale per la verità non sembra essersene adontato più di tanto, D’altronde per poter garantire questo imput nazionale occorrono competenze e strumenti idonei che da oltre un decennio il ministero aveva dovuto predisporre e mettere a punto come chiedeva il decreto Bassanini una legge ormai dimenticata. Come si può definire e gestire una seria politica nazionale senza consulta, comitato stato-regione, una classificazione che ancora non è in grado di istituire una anagrafe dei parchi e delle aree protette senza clandestini, la Carta della natura e un piano nazionale della biodiversità.
In conclusione e paradossalmente più si è cercato di ricondurre al ministero anche decisioni che non ha senso prendere a Roma –magari l’acquisto delle sedie- che dovrebbero invece essere adottate e gestite dall’ente parco a partire dalla scelta del suo direttore più si è palesata la mancanza di una politica nazionale.
Sul mare abbiamo già fatto qualche accenno e basterebbe ricordare che vi sono situazioni che si stanno trascinando da decenni sebbene riguardino realtà certo significative ma anche di portata modesta –penso alla Meloria- o al fatto che si è riusciti a mettere in crisi anche realtà come quella di Ustica la sola o tra le pochissime che non sfigurava nel panorama nazionale.
Il comparto marino presenta gli aspetti più critici e allarmanti sia perché ha comunque una legge che precede di quasi un decennio quella del 91 che per quanto risentisse di una stagione in cui i temi della tutela non avevano ancora acquisito quella visibilità e portata che avrebbero assunto al tempo della legge quadro aveva dato avvio al conto alla rovescia che riguarda un discreto numero di aree protette marine. La legge quadro aveva tra gli altri il merito oltre che aggiungere a quelle già indicate dalla legge dell’82 altre aree marine e di collocarle in un nuovo disegno, una nuova prospettiva nazionale. Un disegno da cui proprio le aree protette marine a cominciare persino dal loro nome e classificazione sono state invece tenute fuori a partire proprio da quella ‘integrazione’ che era e resta obiettivo fondamentale. Due leggi insomma non sono bastate perché si capisse che era assurdo non affidare al parco di Portofino con pretesti assurdi la gestione dell’area marina. Come era assurdo continuare a ricorrere alle commissioni di riserva. Come è più che assurdo provocatorio prevedere –vedi la proposta D’Alì- di sbaraccare le aree protette marine istituite dalla regione in Liguria – e si tratta di Portovenere e simili- per riaffidarle da parte del ministero a soggetti che non includono la regione. Che dire? E che dire d’altronde della scelta del direttore dei parchi nazionali che finora venivano scelti dal ministero tra una terna a differenza dei parchi regionali che da sempre lo designano autonomamente e che ora sarebbe scelti senza neppure la terna. E che dire delle norme ‘nascoste’ cervelloticamente in finanziaria o in qualche superemendamento che ora abroga un consorzio ora un ente ancora che riguardano ancora una volta soprattutto le aree marine. Insomma si persevera diabolicamente e furbescamente tanto è vero quando si decide di potare le rappresentanze negli enti si taglia ma non quelli ministeriali.
A fronte di questa allarmante e pasticciata situazione di cui non si riesce a discutere seriamente in nessuna sede; non in quella ministeriale, non in quella parlamentare, non in quella di Conferenza stato-regioni. E discutere vuol dire innanzitutto attrezzare il ministero che oggi non è in gradi di assicurare una regia nazionale degna di questo nome. E qui torna la legge dimenticata che ho prima ricordato. Vuol dire fare il punto sulla Convenzione alpina specie dopo il riconoscimento dell’Unesco alle Dolomiti. Vuol dire fare il punto su APE e su come i progetti –se ci sono si sintonizzano con le politiche comunitarie superando ogni compartimentazione. Vuol dire immettere a tutti gli effetti a partire da quelli gestionali le aree protette marine nel circuito dei parchi e delle altre aree protette senza pretese di mantenerle separate distinte dove finora –cioè dopo quasi un trentennio-non sono riuscite a decollare decorosamente.
Solo così può prendere forma quel sistema nazionale di aree protette in cui stato, regioni ed enti locali possono trovare un terreno comune di collaborazione e sinergico che è mancato e manca.
Recenti indagini di Federparchi e Federculture offrono uno spaccato meno approssimativo e superficiale di una situazione alla quale fanno torto le banalizzazioni e le accuse ricordate ma che segnalano una condizione che reclama e attende interventi e decisioni di segno assolutamente diverso da quello che si preannuncia.
Ma a quanto è dato vedere sia il ministero ma anche e purtroppo diverse regioni tutto questo o è ignorato o peggio tartufescamente eluso.