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Aree protette: una conquista di civiltà, un indice di progresso, una grande risorsa per il futuro.
Occorre ricordarlo.

Cosa aspetta i parchi?

Si è tenuto al Alberese il VII Congresso nazionale di Federparchi significativamente intitolato, PARCHI: BENI E RISORSE PER L’ITALIA.
Tre anni fa al precedente Congresso tenutosi a Roma avevamo già chiaramente avvertito i preoccupanti segnali di un cambiamento che andava maturando con allarmanti novità rispetto al passato. L’UPI, ad esempio, aveva già chiesto lo scioglimento dei parchi regionali per ereditarne le funzioni. L’UPI che avevo rappresentato nel 91 alla consultazione alla Camera sul testo della 394 che subito dopo sarebbe stato approvato aveva sostenuto il nostro Coordinamento Nazionale dei parchi regionali costituitosi alla Mandria dedicando ai parchi regionali anche il primo libro importante su questa nuova esperienza di cui fino all’ultimo anche il Parlamento non aveva tenuto conto. Era perciò un segnale chiarissimo e non positivo che per i parchi stava cambiando qualcosa ma stava cambiando più di qualcosa anche nel dibattito e confronto istituzionale. Un segnale indice anche di confusione di cui avremmo avuto presto brutte conferme a partire dallo scioglimento delle Comunità montane e delle stesse province di cui si sta ora discutendo, mentre per i comuni piccoli o metropolitani iniziava una vera e propria via crucis che continua. A quella dell’UPI seguì di lì a poco la proposta del ministro Calderoli di abrogare puramente e semplicemente i parchi regionali evidentemente in omaggio al Federalismo leghista.
Già in sede di Congresso maturò perciò la proposta di convocare rapidamente la Terza Conferenza nazionale dei parchi per valutare il precipitare delle cose perché in passato i problemi anche scabrosi non erano certo mancati ma mai al punto di rimettere in discussione il ruolo stesso dei parchi in rapporto alle nostre politiche ambientali e istituzionali. La risposta fu negativa e tale sarebbe rimasta anche dopo ma in compenso il ministro Prestigiacomo avviò una sua diretta campagna di denigrazione dei parchi accusati nientemeno di ‘spreco’ e ‘poltronismo’ e ipotizzando strambe misure di ‘privatizzazione’ il che contribuì non poco al loro discredito tanto più in rapporto ad un clima generale che ormai investiva pericolosamente come abbiamo visto anche di recente l’intero sistema politico-istituzionale. I Commissari aumentarono ed anche la loro durata a conferma che la questione non riguardava soltanto i parchi regionali che pure nelle sedi ministeriali non avevano per la verità mai goduto di tante simpatie. Io non ho dimenticato che alla prima festa nazionale promossa dal nostro Coordinamento nazionale in San Rossore il ministro Ronchi freschissimo di nomina nella sua conferenza stampa di apertura- in omaggio evidentemente all’ospite!- dichiarò papale papale che i ‘veri’ parchi erano quelli nazionali. E coerentemente con questa visione non affidò la gestione dell’area protetta marina di Portofino a quel parco terrestre pur istituito nel 1935 ma nel frattempo regionalizzato. Disse che così era previsto dalla 394 ma la Corte dei Conti disse che era una balla perché la legge diceva che le aree marine se confinanti con un parco terrestre andavano affidate alla loro gestione. Si parlava e si parla tutt’ora di parco terrestre senza specificazioni di sorta. Ma questo non fece cambiare idea né a Ronchi né al ministero che sulle aree protette marine continuò nei molti anni che seguirono a fare i suoi comodi con gli effetti che ormai ben conosciamo.
L’ho presa troppo ariosa? Niente affatto perché dinanzi a questi nuovi e imprevisti rischi per il futuro dei nostri parchi si è detto già subito dopo quel congresso che i rimedi specie per le aree protette marine orami boccheggianti avrebbero potuto venire solo da qualche ritocco e da una indispensabile ‘manutenzione’ della legge 394 che ormai invecchiata non consentiva di fare quello che da anni si doveva fare e non si era fatto. Era naturalmente un’altra balla come quella su Portofino perché il ministero non si era attrezzato come pure stabiliva il Decreto Bassanini di oltre 10 anni fa per costruire una politica nazionale di sistema tanto che oggi non disponiamo né della Carta della Natura, né di una classificazione delle aree protette degna di questo nome, nè tanto meno di sedi e strumenti in cui stato, regioni ed enti locali possano assicurare quella azione coordinata e cooperativa come sta scritto nella 394. E a proposito dei rapporti e del ruolo della scienza la Consulta Tecnica infine non è più stata neppure convocata da quando i suoi componenti chiesero giustamente di essere consultati su cose serie e non banali. Di invecchiate nella legge ci sono innanzitutto perciò le tante inadempienze come ha ricordato ad Alberese l’ex ministro dell’ambiente Valdo Spini. Per evitare perciò scomodi confronti politico-istituzionali si è preferito buttare le colpe sulla legge che il Senato sta maneggiando come peggio non si potrebbe. Su quel testo ho già più volte avuto modo di dire la mia anche in un libro recente e non ci torno. Voglio aggiungere invece che nonostante il documento che Federparchi ha posto alla base del suo recente Congresso in cui si può cogliere la complessità della attuale situazione si sono avvertiti oltre a silenzi e omissis -ad esempio sulla espulsione delle regioni da qualsiasi competenza sul mare- anche idee e ipotesi che fanno a pugni con la legge e con il ruolo dei parchi.
Mi ha colpito –tanto per fare un esempio significativo- la proposta avanzata dal capo del CFS di affidare al corpo compiti di diretta gestione dei parchi. Se un problema c’è e non da ora con il CFS è che la sua gestione –come per la vigilanza nei parchi regionali- dovrebbe dipendere dai parchi per evitare i non pochi problemi insorti in tante situazioni di cui ricordo più volte in passato ci dovemmo occupare nel direttivo di Federparchi. Un parco nazionale oggi ha un direttore che dipende dal ministero dell’ambiente, una vigilanza che dipende dal ministero dell’Agricoltura e CFS, ‘comanda insomma su uscieri e telefonisti?
Ma un aspetto ancor più delicato dove anche nel dibattito ad Alberese ho sentito
proposte assolutamente discutibili e non conformi non solo con il dettato della legge ma in contrasto con le esperienze concrete innanzitutto dei parchi regionali è quella delle ‘rappresentanze’. In particolare Legambiente se n’è fatta interprete saltando a piè pari proprio le esperienze prima ancora che le norme.
L’idea è quella di garantire una presenza negli enti parco di portatori di interessi come gli agricoltori per il ruolo che una certa agricoltura può e deve aree sul territorio del parco e non solo. La prima obiezione che viene facile facile è; perché solo loro e non anche i pescatori etc etc.
Qui emerge subito un limite che ha a che fare proprio con le finalità e il ruolo di un parco che pochi sembrano oggi ricordarlo è –caso unico tra i soggetti istituzionali- ancorato a ben 2 articoli costituzionali il 9 sul paesaggio e il 32 sulla salute. Ossia due beni comuni fondamentali di cui sono ‘titolari’ diciamo così i cittadini residenti e non in quanto tali e non in quanto categorie. Il parco non è una comunità montana, una agenzia turistica, una Pro-loco è un territorio dove le molteplici attività che vi si svolgono dall’agricoltura alla pesca, dal turismo all’educazione ambientale e così via devono rispettare quelle norme costituzionali e il piano di cui l’area protetta deve dotarsi. Nella fase dei primi parchi regionali si diceva il Parco è il suo piano. E’ vero che due piani sono troppi come ha giustamente ricordato Sammuri nella sua relazione ad Alberese e lo sono anche di più tre da quando cioè la parte paesaggistica è stata tolta ai parchi. Ma oggi come abbiamo avuto modo di approfondire in un libro della Collana dell’ETS sulle aree protette naturali dedicato alla pianificazione e curato da Massimo Sargolini è la pianificazione e non solo nelle aree protette ad essere entrata in crisi grave; vedi alluvioni, terremoti etc. I parchi senza tentazioni ‘corporative’ o di settore che non gli competono perché perderebbero la loro ‘specialità’ e ‘specificità’ devono riuscire a recuperare la loro capacità progettuale che passa innanzitutto dalla collaborazione con le altre istituzioni centrali e decentrate che operano sul territorio. La presenza infatti negli enti parco delle rappresentanze ambientaliste e scientifiche a questo deve servire e ha questo significato ed ha questo deve servire ossia a concorrere alla gestione dei fondamentali beni comuni ricordati e non in veste di ‘categorie’ o di ‘lobby’ ancorchè legittime.
E non può essere presa a pretesto la sconfortante situazione in cui oggi si trovano tanti parchi a seguito delle beghe e litigi della politica nel designarne i titolari. Qui non è possibile e non si deve cambiare cavallo cercando sostituti istituzionali perché il vino dei parchi non può essere annacquato in alcun modo. La prima legalità di cui si è parlato anche ad Alberese è quella istituzionale.

Pubblicato il da Renzo Moschini | Lascia un commento

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